La nascita del Caffè Greco a Roma tra storia e leggenda

Antico Caffè Greco 1760 Roma

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Antico Caffè Greco 1760 Roma

 
La nascita del Caffè Greco a Roma tra storia e leggenda

 

Sulla rive gauche, nel cuore di una Parigi decisamente «culturale» (Librerie, Sorbona, Scuola di Medicina) e in vista del Boulevard Saint Germain che s’impaluda nel carrefour dell’Odéon, al numero 13 della Rue de l’Ancienne Comédie protende tuttora la propria insegna l’antico Caffè Procope, o semplicemente Le Procope, sia pure adattato, o declassato, secondo i malumori dei tradizionalisti, in attivo, apprezzato restaurant. «Il più antico caffé del mondo», dice l’epigrafe incisa nel disco di marmo apposto sulla facciata, fondato nel 1686 da Procopio dei Coltelli, e divenuto «il più celebre centro della vita letteraria e filosofica nei secoli XVIII e XIX», considerato che i frequentatori si chiamavano La Fontaine e Voltaire (dell’autore di Candide si conserva un tavolo proveniente da Sans Souci), Diderot e D’Alembert, J.J. Rousseau e Beniamino Franklin, e Danton, Robespierre, Marat, Napoleone, Balzac e Victor Hugo, Gambetta, Verlaine, Anatole France.

Sì che Jean Moura e Paul Louvet, moderni biografi del locale, hanno potuto a ragione affermare che la loro più che una monografia del celebre Caffè, ha finito per divenire «l’histoire méme du XVIII siècle littéraire, philosophique et politique».

Tuttavia, seguendo la buona regola, quelle righe mentono nei riguardi di talune affermazioni ed omettono invece di citare importanti verità. Trascurano ad esempio di dirci che il fondatore, Francesco Procopio dei Coltelli, era italiano; siciliano, per la precisione, o, come una minoranza vuole, fiorentino. Laborioso commerciante dal quale derivò una intera dinastia che, gradatamente infrancesata, riuscì persino a colorirsi di nobiliari accenti: Seigneurs des Cultelli. Da cui un ramo interamente francese, De Cousteau, decimato dalla ghigliottina rivoluzionaria.

Gli umili esordi di marchand limonadier avevano visto il giovanissimo italiano piantare la tenda sui prati, all’ombra della Foire Saint-Germain, e, caffettiera a portata di mano, richiamare passanti e visitatori, gridando le qualità dell’aromatica bevanda. Proprio in quegli anni, infatti, il caffé aveva finito per aprirsi il cammino conquistando la fiducia, tra polemiche e lotte non ancora sopite, l’ostilità e i precetti limitativi della medicina, della Chiesa, e la concorrenza del vino, dei cabarets (corrispondenti alle nostre osterie), fino ad allora soli punti di riferimento per ritrovi e convegni, per giovanili baldorie e conversari chiassosi.

A parte l’episodio notissimo delle capre invase da strana eccitazione dopo aver brucato certe piante, o del priore che, bolliti i frutti di quell’arbusto, si servì del decotto ricavato per tener desti i suoi monaci durante il «mattutino», il caffè, già noto come infuso in territorio persiano, si propaga in Arabia nel XV secolo. Verso la metà del Cinquecento penetra a Costantinopoli, e di là in Ungheria, occupata dal sultano, ove arriva con un anticipo di circa un secolo rispetto ai paesi dell’Occidente. Epoca intorno alla quale i Kahvé Hané, antenati dei moderni bar, a Budapest, sono già elencati nei ruoli delle imposte, e la figura del turco, del greco, dell’armeno (e, per lontana affinità di origini, per identica predilezione di commerci, l’ebreo), del levantino in una parola, diviene da allora comune ai negozi di mezza Europa.

Sulla fine del Seicento, nella Londra risorta dopo i flagelli della peste e del fuoco, sale alla ribalta della notorietà un caffè «del greco», The Grecian, tuttora esistente con la nuova denominazione di The Devereux.

A Roma, intorno al 1650, è invece un ebreo ad aprire la prima bottega del caffè, in Campo Marzio, per cui nel 1674 il protomedico Ludovico Martoli si affrettava a mandar fuori un pubblico bando: «essendo che da non molto tempo in qua si sia introdotto in Roma il vendere pubblicamente e dar per bocca una sorta di seme, portato da parti oltramontane, chiamato volgarmente caffè, non più usitato a Roma, e perciò ordiniamo che nessuna persona, di qualsivoglia nazione e condizione, possa accomodare, vendere né dar per bocca detto caffè a qualunque persona se prima non sarà da noi approvato e con nostra licenza in scriptis etc… sotto pena della perdita e di scudi 25».

In Francia, Procopio era stato preceduto da altri italiani, ma soltanto lui riuscì a mettere su una dignitosa bottega, e fu lui, con i suoi dodici figli avuti da due mogli, a contrastare esemplarmente l’assurda diceria secondo la quale il caffè avrebbe diminuito le capacità virili e procreative dell’uomo. Passato negli attuali locali (la strada prendeva allora nome dai FossésSaint-Germain-des-Près), venne a trovarsi nel 1689 a quotidiano contatto con gli attori, i commediografi, gli spettatori di una nuova sala della Comédie Française (che ribattezzò la via), sì da far passare in breve tempo questo suo Cafè per il vero foyer dell’Hôtel des Comediens du Roy entretenus par Sa Majesté, come si leggeva sul frontone del teatro. Si aprivano in tal modo nuovi orizzonti ai rapporti in genere tra caffè e letteratura, tra le scene e il caffè in particolare. Un destino confermato ai nostri giorni nella stessa Parigi da La Régence, sulla Place du Théatre Français, che si proclama a sua volta «le plus ancien Cafè de Paris», anche se la data che segue, 1718, fa giustizia all’istante della comoda tesi pubblicitaria.

Poiché, ad un dato momento, il Caffè venne ad inserirsi talmente nella vita sociale che, in quella Londra seicentesca, rievocata da Lord Macaulay, the coffee house finì col divenire la casa stessa del londinese, la home, al punto che non ci si chiedeva più se un gentleman vivesse in Fleet Street o a Chancery Lane, ma se frequentasse il Grecian o il Rainbow.

Insomma, se pure buon ultimo, il Caffè-locale veniva ad affiancarsi al cabaret e al salon, per costituire la suprema insostituibile trilogia conviviale: salotto, osteria, caffè.

Anzi, si trovò che il caffè, e indirettamente i locali in cui veniva servito, riusciva a mitigare l’azione nociva dei cabarets; e si vide nella nera bevanda un provvidenziale correttivo alla sbornia, un mezzo efficace per tentare il recupero degli ubriachi. Al cabaret, sacro alla veristica Musa e ai prolungati soggiorni di Saint-Amant, si sostituirono in parte i Caffè, puliti, ben riscaldati e spesso ammobiliati con ricercatezza. Bureaux Académiques, come furono chiamati, ove anche coloro che per il proprio linguaggio non potevano ottenere il lasciapassare per i i sontuosi palazzi delle grandi famiglie del secolo, apprendevano egualmente a vivere in società e ad affinarsi per le battaglie dello spirito.

Quanto ai salotti veri e propri, il caffè-bevanda finì per entrarci trionfalmente, specie dopo che Solimano Aga Mustafà Racà, nel 1669 ambasciatore straordinario di Maometto IV presso il Re Sole, riuscì a debellare le ultime resistenze offrendo caffè alla società parigina nel corso di favolosi ricevimenti, e correggendone la nativa amarezza con zollette di zucchero. Una scoperta di poco precedente quella dovuta alla grande regina di uno dei più ambiti salon, Madame de Sévigné, raffinata creatura che nel 1690 informava in una sua lettera di essere pervenuta (chissà dopo quali laboriose combinazioni) alla creazione del «cappuccino».

«Abbiamo qui buon latte e buone vacche», scriveva, «ci è perciò venuto in mente di far scremare questo latte e di mescolarlo con zucchero e caffè: leggiadrissima cosa, dalla quale ricaverò grande consolazione durante la prossima quaresima». E continuava affermando che Du Bois, medico da lei molto stimato, vedeva di buon occhio l’originale pozione, sia per mitigare l’influenza di petto che per combattere il raffreddore. In una parola, concludeva, è questo il lait cafeté o café laité del nostro amico Aliot, medico personale del sovrano.

La moda del caffè diveniva leziosaggine, smania, in maniera che J.S. Bach, facendo ridestare in sé le sopite corde della satira, castigava in musica quelle salottiere ridicules, dedicando loro la Cantata profana numero 211, detta appunto «del Caffè». Lontani ormai i tempi eroici del caffettiere ambulante, restavano Caffè come il Procope a conferire meritata fama a questi moderni locali, autentici caposaldi di cultura oltre che centri di civile costume; ai quali, nel 1720, si aggiungeva nella Serenissima, sotto i portici delle Procuratie Nuove, il caffè Venezia Trionfante, poi divenuto famoso col nome di Florian.

Quarant’anni più tardi troviamo a Roma le prime sicure notizie sul Caffè Greco, a Strada Condotti, del quale, secondo lo «Stato delle Anime», risulta gestore e forse anche proprietario un «Nicola di Madalena caffettiere», manco a dirlo «levantino».

Antico Caffè Greco 1760 Roma